Omelia XXVI Domenica T.O.-A

(Matteo, 21,28-32)

Ave Maria!

In questo nostro tempo, segnato più che mai da indifferenza religiosa e da nichilismo sempre più pervasivo e strisciante (molte persone dichiarano di non essere minimamente interessate ai problemi spirituali), è paradossale constatare come ci sia anche una effervescenza religiosa che lascia sbalorditi e talvolta perplessi. Peraltro la pubblicistica religiosa, anche in casa cattolica, offre un mercato di proposte estremamente variegato e composito di piccoli e grandi contributi di natura spirituale, mentre sui siti internet abbondano “maestri” che vorrebbero insegnare la retta fede e parlano di Dio quasi fosse la cosa più naturale del mondo. Si direbbe che, più che orfani di Dio, siamo inondati piuttosto da una coltre spessa di discorsi religiosi che lasciano il tempo che trovano e senza spostare di un millimetro le coscienze che vorrebbero istruire con tanto zelo e dedizione. Certo, non è mai in discussione la buona volontà di tanti pubblicisti e scrittori religiosi, ma resta il fatto che per tutti noi è sempre in gioco il discernimento di ciò che edifica davvero la fede oppure di altro che smuove poco o nulla le abitudini semplicemente religiose. In verità, il Signore è sempre “altrove” rispetto a tutti i professionisti religiosi di ogni tempo, per così dire, come suggerisce la parabola di oggi, ed è un grande avvertimento per tutti coloro, me compreso, che vogliono difendere le ragioni di Dio.

Intanto, la parabola è una delle più chiare, semplici e immediate, mai raccontate da Gesù. Al punto che, si direbbe, pare poco degna di essere uscita dalle labbra di Gesù, di solito molto profondo ed estremamente incisivo. Soltanto che essa non è rivolta al gruppo di bambini, ad esempio, che gli correvano intorno, quanto piuttosto ai “sommi sacerdoti e agli anziani del popolo” che si avvicinavano al profeta di Nazaret e nel momento che Egli entrava nella sacralità e solennità del Tempio. Così il racconto della parabola è quanto mai elementare: un padre sollecita i suoi due figli per andare a lavorare nella sua vigna. Il primo gli risponde con una negazione senza mezzi termini, poi, pentito, accetta di andare a lavorare nella vigna; mentre il secondo, alla richiesta del padre, reagisce con ostentata e dubbia docilità, ma si ferma alle parole e non va affatto a lavorare. Appare subito chiaro, da questo racconto, chi dei due sia più vicino alla verità del padre e gli stessi capi religiosi, che ascoltano Gesù, sono d’accordo nel discernere nel primo figlio l’atteggiamento giusto nei confronti della richiesta paterna.
La cosa sorprendente è però l’applicazione della parabola che ne fa Gesù. Le sue parole non potrebbero essere più dure e solo l’Evangelista Matteo le raccoglie perché non c’è dubbio che provengono da Gesù. Solo Gesù, infatti, aveva questa libertà (e il grande coraggio) di fronte ai capi religiosi così temuti e riveriti dalla gente comune: “ In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”, o, per meglio dire, “vi passano avanti sulla via per il regno di Dio”. Gesù sta parlando per esperienza propria. Di fatto, i capi religiosi hanno detto di “sì” a Dio. Sono i primi a parlare di lui, della sua Legge e del suo Tempio. Ma quando Gesù li invita “a cercare il regno di Dio e la sua giustizia”, - li chiama cioè al discernimento circa l’azione e la volontà di Dio -, si chiudono in un batter d’occhio al suo messaggio e non entrano per questa “via”. Con la loro resistenza a Gesù, a conti fatti dicono di “no” a Dio. Viene sempre da chiedersi, in effetti, perché hanno respinto questo messaggio che pure parlava di Dio in termini così assoluti e commuoventi fino al punto da chiedere una reale “conversione”, un passo indietro dunque rispetto alle abitudini consolidate da una pratica religiosa tutt’altro che fervorosa e convincente. I pubblicani e le prostitute, invece, hanno detto di “no” a Dio: vivono al di fuori della Legge e sono esclusi dal culto del Tempio. Tuttavia, quando Gesù offre loro l’amicizia di Dio, si commuovono, ne ascoltano la chiamata e giungono al punto di fare un passo avanti verso il cambiamento della loro vita.
Gesù non ha dubbi: il pubblicano Matteo, il pubblicano Zaccheo, la prostituta che ha bagnato con le lacrime i suoi piedi e tanti altri nelle medesime condizioni “passano avanti” sulla via per il regno di Dio. E dunque, sulla via per il regno di Dio, non passano avanti coloro che fanno solenni professioni di fede, soltanto a parole, ma quelli che si aprono a Gesù facendo passi concreti di conversione al progetto di Dio sull’umanità.

A questo punto, allora, non c’è bisogno di fare tanto giro di parole o di commento circostanziato all’insegnamento di Gesù nella parabola di oggi: davanti a Dio, l’importante, l’essenziale, non è “parlare” ma “fare”! Ciò che è decisivo non è esortare, promettere o confessare, ma cercare e fare la sua volontà che vede sempre più lontano di noi e cerca sempre il nostro bene. Ma sarà vero questo che afferma Gesù? Ecco il punto. In realtà, gli scribi e i capi religiosi parlano costantemente della Legge di Dio, il nome di Dio è sempre sulle loro labbra, lodano Dio senza stancarsi, la loro bocca è piena della preghiera dei Salmi. Nessuno, quindi, dubiterebbe mai che stiano davvero facendo la volontà di Dio. Il fatto è che le cose non sono sempre come sembrano ad uno sguardo superficiale e poco attento. I pubblicani e le prostitute, per contro, non parlano a nessuno di Dio. Da tempo ne hanno dimenticato la Legge, la preghiera e il desiderio di cambiare la propria vita. Cosa poteva vedere Gesù in quegli uomini e in quelle donne disprezzati da tutti? Forse la loro umiliazione. O forse un cuore, nonostante tutto, più aperto a Dio e più bisognoso del suo perdono di Padre. Oppure ancora una comprensione, veramente umana, e una vicinanza maggiore agli ultimi e agli scarti della società. O forse meno orgoglio e prepotenza degli scribi e dei sommi sacerdoti.

Di fatto, la parabola, rivolta da Gesù ai sacerdoti e ai capi religiosi di Israele, è una forte critica ai “professionisti” della religione, che hanno continuamente sulle loro labbra il nome di Dio, ma, abituati, troppo abituati alla religione, finiscono con il diventare insensibili al vero volto di Dio che li incita a “camminare” senza stancarsi sulla sua “via”! Non hanno molto cuore per Dio perché non lo sentono “vivo” e preferiscono adagiarsi sulle loro abitudini religiose, senza cercare Dio in ogni momento e in ogni circostanza. La fede si trasforma così in un “relax settimanale” o perfino quotidiano, senza slancio di ricerca e per lo più affidato alla sicurezza psicologica di cui tutti siamo malati. E il grande guaio, oltre tutto, è che pensiamo che questa parabola, tanto minacciosa, valga soltanto per il popolo dell’Antico Testamento, ma non per noi, che siamo il popolo della Nuova Alleanza e ormai abbiamo quasi la garanzia assoluta che Cristo sarà sempre con noi!
E’ un grave errore. La parabola sta parlando anche di noi. Dio non ha motivo di benedire un cristianesimo sterile da cui non riceve i frutti sperati. Non ha motivo di identificarsi con le nostre incoerenze, deviazioni e poca fedeltà. E anche oggi Dio vuole che i lavoratori indegni della sua vigna siano sostituiti da un popolo che produca frutti degni del regno di Dio. C’è molto da riflettere su questa parabola, anche ai nostri giorni dove ci sono tanti cristiani devoti e solerti, ma pochi autentici discepoli di Gesù. Ma non è il momento di lamentarsi sterilmente. Lavorare con Dio per la creazione di una società nuova è possibile solo se gli stimoli del lucro, del proprio tornaconto, del potere e del dominio vengono sostituiti, con l’aiuto e la grazia di Dio, da quelli della comunione, della fraternità e della solidarietà, ma ancora di più dall’amore e dalla ricerca incessante di Dio che sposta le montagne. Perché là dove è abbondato il peccato, la grazia e la misericordia ormai sovrabbondano per sempre (Rm 5,20). Amen.

 

don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 26 settembre 2020

 

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